“Certo che ci vuole coraggio ad andare in Africa.” È la frase che accompagna ogni mio saluto quando annuncio che sto per partire per il “continente nero”. Coraggio?
“Ma perché vai a rischiare in mezzo ai neri? Ci sono fame, malattie, sporcizia.” Coraggio?
Rossa come sangue, l’Africa ti colpisce con il suo cuore accecante: la sabbia porpora, fine come polvere, disegna una striscia di terra che si stacca dall’asfalto e conduce all’ingresso del National Heart Hospital di Lusaka, la capitale dello Zambia.
I primi missionari di queste terre furono italiani. Arrivarono a ovest, laddove una profonda spaccatura nel terreno fa risuonare un’enorme massa d’acqua: il “fiume che tuona” lo chiamavano i locali, oggi sono le Cascate Vittoria, così battezzate dai colonizzatori europei in onore della regina Vittoria d’Inghilterra. Qui, nell’ex Rhodesia del Nord, gli italiani portarono la Cristianità. Avventura, disastri, civilizzazione, commercio.
Penso a loro mentre percorro la strada dall’aeroporto, in compagnia di otto nuovi missionari moderni: medici e infermieri, professionisti che hanno lasciato il lavoro per una settimana, prendendo le ferie per eseguire interventi di cardiochirurgia pediatrica in Africa. Senza compensi, senza guadagni. Potevano essere in vacanza alle Maldive, e invece sono qui, coperti di polvere su una macchina diretta a Lusaka. Coraggio?
Sono qui per guarire il cuore di tanti piccoli pazienti che non potrebbero sopravvivere senza un’operazione. Una terra arsa dal sole, intrisa dell'odore intenso del sudore, del profumo dolce della frutta, dal sentore del marcio dei rifiuti, del fumo del legno che brucia, e dell'aroma fresco delle foglie verdi.
Bloccati nel traffico, siamo circondati da venditori ambulanti che tra i veicoli polverosi cercano di vendere vestiti, mais, frutta, sigarette. Un groviglio di pelle scura, un bagno caldo di umanità alla ricerca di un modo per sopravvivere.
La realtà di un paese si percepisce dalle persone, dalle infrastrutture e dai servizi. C’è un’unica strada asfaltata che corre dritta dall’aeroporto al centro città; i vicoli tra le case sono spesso linee di polvere, sabbia tra muri di pietra e fango. Uscendo dalla capitale, molte arterie principali sono piste di terra battuta in mezzo alla savana.
La corrente in hotel va spesso via, attivando un generatore a scoppio che non solo fornisce energia elettrica, ma ha anche il compito di svegliare gli ospiti nelle stanze vicine. Ragni, coleotteri, millepiedi. Zanzare. Ma c’è una missione da compiere. Coraggio?
L’ospedale è un miraggio in mezzo al rosso: un edificio moderno costruito dai cinesi, i nuovi colonizzatori del continente nero.
Sementa, 10 anni. Diagnosi: dotto di Botallo, una malformazione molto diffusa nella popolazione zambiana, una patologia che nel mondo “sviluppato” viene operata con successo nei primissimi anni di vita. Vuole diventare poliziotta, me lo racconta sdraiata sul lettino della sala di emodinamica, mentre aspetta l’esame diagnostico. Manca un pezzo per iniettare il contrasto, deve arrivare da un altro ospedale; i minuti diventano ore, ma Sementa rimane lì, da sola sul lettino, senza un lamento, senza una lacrima.
L’emodinamica è una procedura di correzione di cardiopatie congenite per via percutanea, che permette la guarigione attraverso dispositivi senza necessità di chirurgia. In Zambia non è mai stata usata. Mancano i medici, mancano i dispositivi. Dall’Italia abbiamo portato tre enormi borsoni pieni di apparecchi. Decine di migliaia di euro in valore. Un sogno da queste parti.
Qui è il caso a definire chi verrà operato e chi no. Gli interventi sono decisi dalle combinazioni. Si salverà chi ha avuto la fortuna di arrivare vivo fino alla missione di medici stranieri. In Africa, la fortuna scuote la vita come un temporale con i rami di un albero.
Tionge, 22 anni, ha un corpo statuario da fotomodella. La mano sul petto, gli occhi pieni di paura. Accanto a lei c’è Silvia, che guida cateteri e dispositivi attraverso la vena femorale. Tionge prega, sussurra, muove le labbra. Con il palmo della mano ascolta il suo cuore battere come un tamburo. Sogna di diventare mamma, ma le avevano detto che la sua malformazione probabilmente non glielo avrebbe permesso. Piange: la cardiopatia è stata riparata. “Il mio cuore adesso non batte più all’impazzata.” Abbraccia Silvia: “Non più, adesso è un cuore pronto per donare altra vita.”
I medici vanno nei Paesi poveri per sostenere e aiutare il personale locale, per guarire, ma soprattutto per formare, insegnare il proprio mestiere.
Questo continente ha conosciuto una civilizzazione che a volte è stata catastrofica. Dobbiamo mettere da parte secoli di sottomissione ormai insita nel loro DNA. Ricordo un’esperienza vissuta in Tanzania: camminando in corsia, la gente si spostava per farmi passare per primo da una porta, non era solo educazione, ma quasi un atteggiamento servile. Da allora ho cominciato a camminare sempre un passo indietro, non solo per cortesia, ma per apertura. Le porte si attraversano con dialogo, sorrisi, rispetto.
Ci sono esperienze che ci tirano fuori l’anima, lacrime che dobbiamo versare e sfide che dobbiamo affrontare. L’Africa ti insegna a essere umile e grato. Fra povertà, lacrime, polvere e zanzare.
Abbiamo pregato in sala operatoria all’inizio del primo intervento, come facciamo sempre, ognuno con il proprio Dio. In quella sala c’erano infermieri dalla Tanzania, medici italiani, personale zambiano, operatori israeliani. Un’associazione di Tel Aviv ha finanziato la missione. Un segno del destino. In un momento particolarmente difficile per la pace, eravamo tutti tra quattro mura: italiani, zambiani, tanzani, israeliani.
“Combattiamo tutti insieme per la vita, che sia anche una sola,” ha detto Sasha, chirurgo italiano. “Quattro popoli nella stessa stanza dicono no alla guerra.” E se un Dio esiste, si è manifestato attraverso l’opera di mani umane. In futuro ci saranno bambini diventati adulti, ci sarà una mamma, e una poliziotta.
Coraggio? Molti mi dicono che ci vuole coraggio per andare in Africa. Il coraggio è di quelle mamme che entrano in ospedale con solo quello che hanno addosso, senza borsoni pieni di vestiti, tablet o giocattoli. È negli occhi di Saneta, che brillano per la gioia di aver ricevuto in regalo un intero pacco di colori. È nel sorriso di Lilian che soffia bolle di sapone, o di Alex con la sua macchinina blu. Pantaloni bagnati di pipì, il sudore, la maglietta di Hello Kitty, gli occhi gonfi di stanchezza.
Non so se un giorno sarò padre, ma se dovesse succedere, desidero che i miei figli conoscano il vero significato dell’Africa. Vorrei insegnare loro che nulla di ciò che possediamo è scontato, che spesso la felicità risiede nella semplicità e che il valore della fortuna è racchiuso nella libertà di rischiare, scegliere, sbagliare, cadere e avere sempre la forza di rialzarsi.
L’Africa mi ha insegnato tutto questo, e molto di più. Non ci vuole coraggio per andare in Africa; ci vuole gentilezza, altruismo, empatia.
Che fine ha fatto tutto questo nelle nostre vite? Sembra soffocato dal cinismo, dalla frenesia e da un’eccessiva razionalità. Eppure, i piccoli miracoli continuano a esistere. Lo hanno dimostrato questi ragazzi con il loro “amore in azione” in questi giorni. Non hanno semplicemente lavorato; hanno vissuto. Lavorare è dare il proprio tempo e le proprie energie in cambio di denaro. Loro, invece, lo hanno fatto per i singhiozzi di sollievo delle madri, per le mani che stringevano le loro con gratitudine, per i balli nel corridoio. Hanno agito per amore, senza alcun ritorno economico. L’amore non si ripaga con i compensi. L’amore si ripaga con l’amore.
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