Dall’ uscio di casa alla montagna più alta. La scalata al campo base dell'Everest

La videocamera appoggiata sul sedile della macchina, nuova nella sua confezione, la mia prima videocamera. Sono passati quasi 15 anni da quando decisi di provare a fare il video maker, fino ad all’ora avevo semplicemente una bravura per fare i video, un diploma di geometra, una laurea in scienze statistiche, varie situazioni mi avevano portato ad essere in quel momento senza lavoro, decisi allora di seguire la mia passione: “Nonno faccio il video operatore”. Non avevo nessun contatto, dovevo cominciare da zero, non ero nessuno, era un salto nel vuoto, una scalata senza appigli. Mio nonno Matteo, con i suoi 90 anni, probabilmente non comprese nemmeno veramente quale fosse il mestiere che volevo fare, mi rispose con una domanda: “Tu lo sai qual è la montagna più alta?”

Destinazione Nepal

Sono su un volo per Kathmandu, l’invito di qualche mese fa di Antonio, un ragazzo conosciuto in un viaggio in Islanda con il quale siamo diventati amici: “Vuoi venire a fare il trekking sull’Everest”. Non proprio una passeggiata di salute. Ci penso, rimando l’iscrizione, aspetto, infine prenoto il viaggio la vigilia di Natale, quando sono da solo in casa in preda ai miei i pensieri. Posso farcela mi dico, un po’ di preparazione fisica e riuscirò ad arrivare al Campo Base dell’Everest, 5 mila e rotti metri di altitudine, 150 km a piedi, sto bene, posso farcela.

A gennaio comincio una piccola preparazione fisica, passeggiate giornaliere con alternate tappe più pesanti in salita, preso dall’ entusiasmo forzo troppo e ho un’infiammazione al ginocchio, mi tocca fermarmi più di un mese, tempo prezioso perso, ma mi dico che sono ancora in tempo. A marzo mi rimetto in movimento trovando del tempo per camminare fra lavoro, pioggia e impegni vari. Arriva maggio. Non sono riuscito a fare un allenamento adeguato, emotivamente non sono in condizioni perfette, ma credo che le mie possibilità di “conquistare” il campo base dell’Everest dipenderanno molto dal mio stato mentale, dovrò assicurarmi di evitare i brutti pensieri e le cattive giornate.

 

Clacson, polvere, smog, umidità. Veniamo subito inghiottiti dalla caotica Kathmandu, qui incontriamo Kim, la nostra guida, un nepalese di circa 40 anni, sarà lui a condurci per i sentieri himalaiani. Una prima riunione in cui ci vengono consegnate le sacche impermeabili dove mettere i nostri vestiti, dobbiamo rientrare in 15 kg circa, bagagli grandi che porteranno su gli sherpa. Kim controlla i nostri sacchi a pelo e i giubbotti, in altura sono necessarie attrezzature in grado di resistere al gelo della notte, il mio sacco piuma da 5 gradi viene messo da parte, ne userò uno della compagnia realizzato per resistere fino ai meno 25. Si fa sul serio. Contro gli effetti dell’altitudine dovremo cercare di bere almeno tre litri di acqua al giorno, servirà fisico e testa. Se qualcuno poteva pensare sarebbe stata una passeggiata, adesso ci siamo tolti ogni dubbio.

La catena dell’Himalaya

Sono passati 70 anni esatti dall’impresa del neo zelandese Edmund Hillary e dello sherpa Tenzing Norgay, le prime persone a raggiungere il punto più alto della terra, erano le 11.30 del mattino del 29 maggio 1953. Quel giorno la cima dell’Everest era stata conquistata, la strada a nuove scalate era appena stata aperta.

 

Fuori dal finestrino del piccolo aereo il vuoto, un salto di migliaia di metri su un mare pietrificato, blocchi di pietra e ghiaccio che formano la catena dell’Himalaya. Quaranta minuti di volo dalla caotica capitale nepalese a Lukla. Aeroporto “Hillary-Tenzing”, l’aereo stazione più pericolosa del mondo. Una pista inclinata sul precipizio situata a 2800 metri, con una forte pendenza fra le due estremità di circa 60 metri, necessaria per permettere ai velivoli di perdere velocità in fase di atterraggio, ed acquistarla invece in discesa nel breve spazio del decollo. L’aria è frizzante, inaliamo il primo odore dell’Himalaya, un the caldo al limone mentre incontriamo i portatori. La compagnia è formata da 16 escursionisti italiani, rappresentiamo la penisola da nord a sud. A noi si aggiungono sette portatori e due guide, Sagar, un giovane sherpa poco più che ventenne, e Kim.  Profondo conoscitore delle vette himalaiane, Kim è stato quasi un centinaio di volte al campo base. Non ha mai raggiunto la cima dell’Everest, “Per rispetto” ci dice. L’Everest è Sagarmatha, “la dimora della dea madre”. I popoli di queste montagne credono in una infinità di demoni e spiriti che secondo loro vivono nella valle del Khumbu e sulle vette che la delimitano. Il turismo ha trasformato l’economia locale e lo stile di vita di questo popolo, prima le montagne erano considerate un universo inviolabile, adesso fonte di opportunità economica. Gli sherpa sono padroni dei lodge, dei negozi, delle aziende di trekking, ma è anche grazie a questa apertura che io ho la possibilità di essere lì.

Sui sentieri dello spirito

Fiumi impetuosi che modellano impressionanti canyon, villaggi, coltivazioni di patate, boschi di rododendri. Il parco di Sagarmatha, area che custodisce i giganti della terra. Le vette supreme dominano il passaggio come mura fortificate, i sentieri sono costellati di stupa, bandierine di preghiera e i muri mani, massi dipinti con versi sacri. Ruote di preghiera che superiamo lasciandole alla nostra destra, i luoghi sacri si circumnavigano in senso orario in segno di ringraziamento agli dei. Non ci sono strade, non ci sono ciclomotori, ogni mezzo a motore è un lontano ricordo. Tra queste vette il tempo si misura in giorni in cammino, in fatica e sudore sugli infiniti sentieri.

Sulla strada si incontrano file di muli, yak caricati di merci e tantissimi portatori, qualunque tipo di merce viaggia su zampe e gambe, sulla schiena, con le ciabatte ai piedi. I portatori salgono in scioltezza con qualunque cosa addosso, cibo, sacchi di farina, scatoloni enormi, addirittura parti di abitazioni. Per due giorni incrociamo una decina di sherpa che portano sulla schiena travi di ferro, due a testa, oltre 200 kg ciascuno.

Un mosaico di gole e avvallamenti, superati dai ponti tibetani lunghi centinaia di metri, passaggi sospesi nel vuoto. Dai 2800 metri di Pachding puntiamo verso Namche. Cavi d’acciaio e passerelle alte duecento metri, il ponte di Hillary scavalca un fiume impetuoso ad un’altezza che mette i brividi. Una salita spacca gambe dentro una pineta ci porta rapidamente in alto. Namche Bazaar, quota 3440. Cittadina a forma di anfiteatro, capitale del popolo delle montagne. Intorno una catena di giganti bianchi. È qui che vediamo per la prima volta l’Everest, lontano, confuso tra le altre vette, è una vista che incute rispetto, riverenza, quasi avessimo di fronte una personalità di rango, un’autorità. Il primo incontro con il gigante è una sensazione unica.

 

La doccia è tiepida e spartana, la stanza fredda, umida ed essenziale, il letto due tavole di legno con sopra un materasso e una trapunta, due ganci per attaccapanni l’unico elemento di arredo. Non sappiamo ancora che nei prossimi giorni, rimpiangeremo con nostalgia questa comodità come fosse un hotel di lusso.

Oltre i quattromila

I portatori legano insieme i borsoni, due ciascuno, il carico viene stabilizzato con una cinghia di iuta che passa sulla fronte, con le schiene piegate anticipano il nostro cammino. Ad aprire il gruppo dei trekker è sempre Sagar, a 17 anni ha cominciato a lavorare facendo il portatore, per oltre 5 anni ha trasportato bagagli su e giù in queste vallate, ora a 22 anni è diventato una guida. Sono sentieri battuti, in gran parte lastricati, sulla strada incrociamo i bambini che vanno a scuola, dai vari villaggi raggiungono le poche strutture, qualcuno ci mette anche un’ora a piedi. Vette tormentate dal vento, villaggi, cani, polli e bambini seminudi che razzolano insieme.

Raggiungiamo la Guest house di Tengboche. Non c’è acqua calda, le camere piccole, senza prese elettriche. Provvediamo all’igiene personale con delle salviettine imbevute. A queste condizioni è sempre un’operazione incerta lavarsi con l’acqua, per non parlare di ingerirla. Quindi, d’ora in poi, solo acqua in bottiglia per bere e lavarsi. Chi di noi la riempie alle fonti e nelle strutture, usa pastiglie per depurarla. Da qui a salire è sconsigliato anche mangiare carne, può essere conservata e cotta male, i nostri pasti saranno solo riso, uova e verdure.

 

Quando cala la luce sembra che forze invisibili, spiriti della montagna possano popolare queste zone, qui la natura mostra il suo fascino più che in altre parti del mondo.

Sintomi d’alta quota

L’odore della neve annuncia l’inclemenza della notte trascorsa, ha piovuto, una coltre bianca simile a zucchero a velo copre i fianchi bassi delle montagne, il fiato aleggia nell’ aria. Abbiamo superato la quota dei 4000, la vegetazione è scomparsa, si aprono valli alluvionali, pietraie immense. Il respiro è corto, a tratti quando la salita si fa più impegnativa mi sembra di sentire le vertigini, vado avanti guardando solo la mia ombra e ritmando il passo con il rumore dei bastoni sul terreno. Arriviamo a Dingboche a 4400 metri. Alcuni dei ragazzi cominciano ad avere sintomi della quota, nausea e stanchezza si insinuano nell’organismo. C’è chi la contrasta assumendo diuretici, alcuni anche in maniera preventiva. Decido di non prendere nessuna medicina, voglio reggere la quota in maniera naturale, bevendo e riposando il più possibile. Assumere liquidi aiuta ad acclimatarsi, è la migliore misura preventiva contro il mal d’altitudine. Il villaggio è una manciata di case di pastori trasformate in alloggi. Uno yak bruca la poca erba all’ombra di uno stupa. Nella notte i vestiti stesi ad asciugare si sono congelati sul filo. Per limitare il peso del bagaglio, sono partito con soli tre cambi di intimo, calze e magliette, ho un sapone di Marsiglia con il quale li lavo ogni due giorni. Nell’ aria si avverte la presenza dei colossi che compaiono e scompaiono fra le nuvole. Gli elicotteri vanno e vengono lungo la valle, portano rifornimenti e soccorrono chi sta male e deve necessariamente tornare a quote più basse. Ci fermiamo un giorno per permettere al corpo di acclimatarsi lentamente. Tra di noi c’è chi non sta bene ed ha preferito rimanere a riposo per provare a ripartire il giorno dopo. La soglia dei 4000 comincia a portarmi mal di testa, ho le mani gonfie e indolenzite. Anche sistemare il sacco a pelo per la notte è una fatica, ho il fiatone quando finalmente chiudo la cerniera.

I sintomi da mal di montagna si possono presentare in forma leggera o grave, l’importante è sapere cogliere i segnali del corpo. La privazione di ossigeno provoca nausea e forti mal di testa, inappetenza, vomito, tachicardia con battiti sopra i 100 anche a riposo, confusione mentale, difficoltà respiratorie. In quei casi bisogna scendere di quota di almeno 300 metri. Marco ha passato una brutta nottata, ha deciso di abbandonare e tornare giù. A queste quote, la stabilità mentale e comportamentale, oltre che fisica, decide chi può raggiungere la cima. Attiviamo l’assicurazione, un elicottero lo preleva in un piccolo spazio tra i pascoli. Andrà a Lulka e poi in ospedale a Kathmandu dove resterà qualche giorno in osservazione. Riprendiamo la marcia in salita.

Su un altopiano incontriamo il memoriale dei caduti, i picchi innevati custodiscono i tanti chorten, pile di sassi commemorativi. Ci sono i nomi, le storie, i volti di chi su queste vette ha lasciato la vita per una sfida, un sogno. Un’atmosfera surreale, le bandierine garriscono al vento. Si tratta di lunghe strisce di preghiere buddhiste tibetane dipinte su pezzi di stoffa colorata, secondo le credenze popolari, le preghiere dovrebbero salire agli dei grazie ai venti.

“Andiamo”, Sagar ciondola la testa e fa segno di ripartire. Puntiamo ai 5000 mila metri, il vento gelido ci tormenta. La vegetazione è scomparsa, nessun albero, solo muschio ed erba bassa. Salendo di quota le montagne sbarrano l’accesso all’umidita dei monsoni, il deserto d’altura prende il sopravvento. La quota spacca i capillari, soffiarsi il naso vuol dire chiazzare il fazzoletto di sangue. Ogni cambio di pendenza è una sofferenza, commettere l’errore di allungare di poco un passo fa venire il fiatone. Bisogna andare avanti regolari, a cadenza costante. Un leggero nevischio ci accompagna per gli ultimi chilometri della tappa, ho la faccia bruciata dal sole d’ altura, le labbra screpolate dal gelo.

Sopra i 5.000 metri, il corpo umano degenera costantemente, a prescindere da quello che si consuma o da quanto ci si riposi. Dai 6.000 metri in poi l’organismo si deteriora a una velocità allarmante. Di solito, un essere umano può sopravvivere un massimo di cinque giorni a 8.000 metri, nella cosiddetta zona della morte, qualunque cosa si faccia.

 

Arrivo ai 5030 metri di Lobuche con le ultime forze, davanti a noi si apre la valle dei giganti, ci sembra quasi di poter toccare il Nuptse con i suoi 7800 metri di ghiaccio e roccia. Vediamo la parete sud dell’Everest, non è armonioso, non è slanciato, piuttosto un blocco nero ma verso il quale si porta profondo rispetto. Poderoso, onnipotente.

Dai cinquemila al Campo Base

L’alloggio è il peggiore visto fin adesso, umido, il bagno pieno di bidoni in plastica e una latta da usare come scarico. Ci raduniamo infreddoliti nella sala comune. Elena non ha una bella cera, ha la febbre, trema. L’unica stufa in cucina viene accesa solo durante la preparazione dei pasti e spenta dopo cena, quando ancora non sono nemmeno le 20. La notte sarà lunga.

Mi sveglio di soprassalto con la fame d’aria, la saturazione già bassa a queste quote, diminuisce lievemente durante il sonno, può capitare quindi di svegliarsi con il respiro corto. Ho bisogno di attivare la circolazione, per contrastare i sintomi mi attacco alla bottiglietta d’acqua, ne viene fuori lo stimolo di fare pipì che trattengo fino al limite, il bagno è in fondo ad un corridoio scricchiolante e freddo, uscire dal sacco a pelo è un trauma, fuori ci sono 10 gradi sotto zero.

È la peggiore notte del viaggio, proprio quando sta per sorgere l’alba del giorno più importante. Partiamo alle 6, fuori è tutto ghiacciato. La salita è tutta su un fondo alluvionale dentro la valle, da un rilievo riusciamo a scorgere le tende del campo base, lontane, in alto, sono quasi un miraggio nella luce tremolante, ma ci danno nuova forza. Nel piccolo villaggio di Goraskhep ci concediamo la pausa pranzo, il tempo di riprendere le forze per affrontare l’ultimo tratto, quello decisivo verso il Campo Base. Ripartiamo senza Elena, la sua scelta di abbandonare a poche ore dalla meta non deve essere stata facile, ma proprio non ne aveva più.

Gli ultimi tre km che ci separano dal campo costeggiamo il ghiacciaio del Khumbu, nella valle rimbomba ogni tanto il rumore di frane e valanghe che vengono giù. Qui la terra è in continua attività, erosa, tormentata dagli elementi. Non esiste più nessuna forma di vita visibile. La linea delle rocce mostra quanto grande doveva essere il ghiacciaio millenni addietro, centinaia di metri più su. La vista è impressionante, un’intera valle incisa, sfregiata da migliaia di metri cubi di roccia clastica, frane, masse, pozze glaciali. Il percorso è un continuo saliscendi su lamine di ghiaccio, roccia, neve sporca, scricchiolii, pietre che rotolano. Il campo è lì in lontananza, possiamo vederlo, si coglie il contrasto del colore delle tende sul bianco del ghiaccio. L’ ultima ora di cammino è un calvario, il fisico non risponde più, vado avanti guardando le punte dei piedi, non alzo la testa per non bloccarmi a pensare su quanta strada ancora manca. I muscoli chiedono ossigeno che i polmoni non possono dare, il cuore accelera, 120, 130 battiti, rallento il passo per recuperare. Superiamo un seracco ghiacciato, il sentiero scorre tra guglie e laghetti turchesi. Le gambe sono pesanti. Le cime delle montagne sono affilate come lame e luccicanti di ghiaccio immacolato. Non ne abbiamo quasi più, ci facciamo forza l’un l’altro solo con lo sguardo, nessuno ha voglia di parlare, il silenzio è interrotto solo dai sibili dei mulinelli di polvere alzati dal vento. Il campo è vicino. La salita è estenuante, la testa fa male, la nebbia sale dal fondo valle più veloce del respiro.

A poche centinaia di metri dal campo l’ultimo tratto in discesa, pochi passi ancora quando veniamo colpiti da una bufera di neve. La mano misteriosa di uno sceneggiatore ha deciso che il nostro arrivo sarà così, in mezzo alla neve bianca che copre il viso e le lacrime. “EVEREST BASE CAMP 5364 metri”, una scritta con la vernice rossa su un enorme masso, ce l’ho fatta! Scoppiamo in un pianto liberatorio, scarico la tensione, guardo gli altri in viso, c’è chi è in ginocchio, chi con le mani giunte prega in disparte. Abbraccio tutti, dai miei compagni agli sherpa, anche grazie al loro aiuto siamo arrivati fin qui, strette sincere, pacche sulle spalle, mani gelate.

 

Il campo tendato sorge a ridosso del ghiacciaio, poco sotto le leggendarie e insidiose cascate del Khumbu, una massa enorme di ghiaccio in continuo movimento, il primo pericoloso ostacolo che devono affrontare gli alpinisti che vogliono arrivare in cima al mondo. Nel periodo delle spedizioni il campo è un vero e proprio villaggio colorato con centinaia di climbers che si preparano per la scalata. Da qui in poi vanno avanti solo quelli allenati e danarosi. La salita richiede un costo di oltre 50 mila euro, tra permessi, attrezzatura e logistica, oltre che numerosi mesi di preparazione fisica e acclimatamento, e non è detto che si arriverà in cima, ci sono molte cose per cui ci si può allenare e preparare, ma non è possibile sapere come il corpo reagirà quando l’immissione di ossigeno sarà ridotta.

La montagna più alta

Perché si fanno queste scalate? Perché si cammina così tanto da far sembrare il tutto più una punizione che un viaggio di piacere? Forse per dimostrare qualcosa a sé stessi, spesso agli altri, per il gusto della sfida. Luca l’ha fatto in memoria del nonno, appassionato alpinista che ha realizzato nella sua vita numerose scalate, fra le quali quella sul Kilimangiaro. L’Everest è rimasto per sempre un sogno, il nipote ha portato a termine l’impresa in suo ricordo, indossando le stesse scarpe da trekking che il nonno aveva usato fino a poco tempo prima di lasciare questa terra. I sogni. I ricordi. Serena ha conosciuto fin da piccola l’amore per la montagna grazie al papà, con il quale realizzava viaggi e trekking in giro per il mondo. Una malattia se l’è portato via un anno fa, “Non conta la durata della vita, ma la sua profondità” una targa di legno recita così, da oggi si trova in eterno sull’Everest, dove Serena l’ha lasciata in sua memoria, più vicino possibile al cielo. Edoardo, Antonio, Nicolò, Andrea, Federico, sono tutti sfiniti e commossi, hanno realizzato un sogno contando solo sulle proprie forze. Un pensiero soprattutto a chi non è arrivato fino alla meta finale, Marco ed Elena, qualche volta la vittoria reale è l’abbandono, essere in grado di cedere appena in tempo senza soffrire la sconfitta.

Io ho appena compiuto la mia piccola personale impresa, sicuramente la più difficile fisicamente mai affrontata. La chiamo impresa non a caso, anche per il solo fatto che i commenti prima della partenza l’hanno resa tale, “Non puoi farcela”. “È troppo impegnativo”. “Dove devi andare”. Ci sono riuscito, per me e per chi mi ha dato la forza anche solo pensandomi. Cosa serve per arrivare ai piedi del tetto del mondo? Innanzitutto avere la volontà e il coraggio di mettersi su un aereo e partire.

Ho preso un sassolino a 5364 metri, il punto più alto sulla terra in cui sia mai stato. L’ho messo in tasca per portarlo a chi c’è sempre stata. Le motivazioni che mi hanno portato fin lì le ho trovate strada facendo. Il cerchio del mio viaggio si è chiuso magicamente sulla via del ritorno, per caso, per una coincidenza. Sfinito ho poggiato lo zaino sulla porta del lodge al mio arrivo a Namche, in quello che era stato l’ultimo alloggio degno di chiamarsi tale prima della scalata. Sul legno della parete una scritta che nel soggiorno della settimana prima non avevo notato, un proverbio: “La montagna più difficile da scalare è quella che abbiamo dentro”. Ho avuto un brivido e ho versato le ultime lacrime tra quelle montagne. Sono passati tanti anni da quel giorno in cui dissi a mio nonno che avrei fatto il video marker, posso dire di esserci riuscito, di avere fatto della mia passione un lavoro. Ora che lui non c’è più, ho fatto mia la frase che quel giorno mi rivelò di fronte alla mia prima videocamera: “Ricordati sempre <<A muntagna chiù jauta è u bisolu da potta>>”. La montagna più difficile da scalare è l’uscio della propria casa. Sono partito per mettermi alla prova e mi sento privilegiato, perché la più grande montagna del mondo mi ha mostrato i miei limiti, le mie paure e i miei obiettivi. Il principio è lo stesso, che siano sentieri reali o della vita.

 

Spero di avere ispirato le persone a capire se stanno vivendo la propria vita, oppure continuano a rimandare. Bisogna inseguire la propria meta e avere il coraggio di perseverare, anche di fronte alla sconfitta, che è parte fondamentale di qualsiasi tentativo, oltre “u bisolu da potta”, qualunque sia il vostro sogno.