Nevica. L’erba gelata scricchiola sotto i nostri piedi. La facciata rossa dell’università Shevchenko svetta al di là del parco. È una fredda mattina d’inverno, il sole su Kiev sembra non voler sorgere.
Il bicchiere con il caffè, stretto fra i palmi, riesce appena a scaldarci le mani. Giuseppe, il mio compagno di viaggio, mi osserva con lo sguardo interrogativo, un misto d’indecisione e paura.
Scorgiamo da lontano il pulmino nero. Ci aspetta Iryna, la nostra guida.
130 km dal reattore.
Stiamo per andare in una delle zone più inabitabili del mondo: Chernobyl.
Avevo 7 anni quando per la prima volta sentii pronunciare il nome di questo posto. Ancora bambino non riuscivo a percepire realmente cos’era successo, ma era il senso di una catastrofe. Era il 26 aprile 1986.
In quei giorni i telegiornali si aprivano con l’animazione di una nube rossa che partiva da una zona della Russia lentamente si allargava e copriva parte dell’Europa.
I miei genitori non portarono più la bottiglia di vetro vuota ai pastori, che tutte le sere, la riempivano di latte e la lasciavano sul muretto davanti casa per poi essere ritirata piena.
In casa dicevano che per un po’ non avremmo bevuto latte né consumato verdura.
La notizia della catastrofe nucleare si trasformò in una nuova forma di terrore, disseminando sulla nostra quotidianità quantità sempre maggiori di paura e precauzioni. E noi in Italia eravamo lontani migliaia di chilometri dal luogo dell’incidente.
Lasciamo la città e ci dirigiamo verso nord attraverso la campagna ucraina. Il cielo è pesante e grigio come il metallo.
30 km dal reattore.
La zona di esclusione, l’ecosistema più radioattivo al mondo, il sito del disastro.
Entrare nella zona è vietato, serve un permesso, una “scorta” ufficiale e documenti da firmare. La zona è recintata e protetta dal filo spinato, i varchi sono presidiati da sentinelle e l’accesso avviene a piedi attraverso sbarre di controllo. Con un po’ di timore passiamo il primo check-point.
Durante il viaggio, Iryna, ci ha raccomandato sulle precauzioni da mantenere: non mangiare e non bere fuori dal pulmino, non prendere nessun oggetto come “souvenir”, non camminare fuori dalle zone battute, non entrare nel bosco, e soprattutto non toccare nulla, nemmeno un filo d’erba!
L’unico contatto che dobbiamo avere con questa terra, sarà solo con le suole delle scarpe.
Da ragazzo mi piaceva seguire delle trasmissioni scientifiche, me ne ricordo particolarmente una in cui si parlava della “terra dopo l’uomo”, una simulazione degli effetti di cosa succederebbe se tutta l’umanità scomparisse contemporaneamente dalla faccia della terra.
La natura invaderebbe i palazzi, le costruzioni prive di manutenzione crollerebbero.
La zona di esclusione di Chernobyl è oggi il mondo dopo l’uomo.
Tutto è stato abbandonato, niente di quello che la gente possedeva è stato concesso loro di portare via, perché tutto contaminato, tutto rivestito di morte.
L’esplosione al reattore n.4 disseminò la zona di gas radioattivi e materiale solido altamente tossico.
Era una morte mai vista.
Ogni catastrofe ti dà il tempo di vedere, capire e cercare di reagire. Ma quello che vissero gli abitanti della zona di Chernobyl era a quei tempi una situazione mai vissuta prima.
Non era una frana, una valanga, un terremoto o un incendio. Non aveva odore, colore sapore, forza, calore. Nessuno è scappato. Era una morte leggera, entrata nelle ossa e nel sangue.
La morte invisibile. La radiazione. Come poteva essere spiegato ai contadini e alla gente dell’epoca di cosa si stesse parlando?
La città era sommersa dalle radiazioni, ma gli abitanti non ne furono informati. Guardarono per giorni quel fumo colorato uscire dalla centrale, come fosse un evento.
Nessuno sapeva la verità.
Come i pompieri accorsi quella notte a spegnere un incendio in maniche di camicia. Ignari che, il nocciolo radioattivo fosse esposto, ricevettero dosi incredibili di radiazioni. Morirono in pochi giorni, contaminando i famigliari e i medici che avevano tentato di curare le spaventose ustioni esterne ed interne.
Avevano assorbito così tante radiazioni da diventare dei “reattori umani”.
Riposano oggi nel cimitero degli eroi di Mosca, chiusi dentro bare di spesso piombo.
Ci volle qualche giorno perché il governo russo ammettesse l’entità del disastro ed evacuasse interi villaggi.
Gente che per generazioni aveva vissuto nella stessa casa, le tombe dei padri e dei nonni si trovavano nel cimitero del paese, poi, improvvisamente, costretta a fuggire.
La morte arrivò per mano di un nemico invisibile, un fantasma.
10 km dal reattore.
Kolaci, un villaggio di case costruite in legno, venne evacuato, distrutto ed interamente sepolto.
Le case abbattute e interrate con tutto quello che c’era dentro. Tutte distrutte tranne l’unica costruzione in mattoni: l’asilo.
Se la vista di una città abbandonata non desse da pensare, ci riuscirebbero sicuramente le bambole e le scarpette sparse per terra.
Gli armadietti e i mucchi di mattoncini colorati.
I nostri contatori di radioattività cominciano a cigolare all’impazzata. Questa è stata una delle zone più colpite. Ancora oggi gli alberi e le piante crescono con dosi di radioattività elevate.
Ci sono ancora i giochi dentro la scuola, le sedie al bar, i manifesti al cinema, le tribune allo stadio, la giostra al luna park.
3 km dal reattore.
Pryat è oggi la città post-apocalittica come ne vediamo nei film.
I seggiolini della giostra girano spinti dal vento, cigolando alla resistenza della ruggine che ormai avvolge tutto, un suono sinistro, come il vento fra gli alberi che sembrano guardarti.
Doveva essere inaugurato il primo maggio del 1986 quel luna park, doveva essere una festa per tutti.
La ruota ha girato solo poche ore dopo il disastro, quando le autorità decisero di metterla in funzione, per distrarre la popolazione dall’incidente al reattore, che pochi chilometri più in là spargeva morte nell’aria.
Quei bambini che, per poche ore hanno riso su quella ruota, non sapevano di essere già morti.
L’intonaco della facciata si stacca a pezzi, svelando i mattoni grezzi della muratura. In qualche palazzo resiste ancora qualche insegna incoronata da grandi falce e martello, i simboli sovietici.
La piazza si sta arrendendo agli arbusti e al muschio.
Tutto è oggi sopraffatto da ruggine ed erbacce. Gli alberi si stanno riprendendo i loro spazi. Una natura anch’essa contaminata.
Pryat è la terra dopo l’uomo di quel documentario visto da ragazzo. Ma qui è tutto vero.
«Non camminate sul muschio, è come una spugna, assorbe radiazioni da decine di anni.»
Iryna per quasi tutta la mattinata è stata silenziosa. Di colpo mi chiede se va tutto bene. Le rughe accanto agli occhi, tradiscono un’età che è sicuramente più degli anni che la sola parte di viso scoperta sotto il cappello di lana, mi faceva pensare.
Lo sguardo dei sui occhi azzurri guarda il bosco, assente.
Nemmeno la neve che ci circonda, bianca e pura, è in realtà sicura.
La memoria di quegli eventi muore ogni giorno. Gli anziani non vogliono ricordare, i giovani non vogliono parlarne. Era una guerra in cui il popolo era sotto attacco, e nessuno li ha difesi. Una guerra che ha visto tutti perdere. E i bambini di Chernobyl, che oggi hanno trent’anni, lo sanno.
Ai piedi del reattore.
Il “mostro”. Un’ enorme cupola di acciaio avvolge quello che resta oggi del reattore numero 4. Un sarcofago che ha il compito di contenere la fuoriuscita di radiazioni, costruito e posizionato nel 2016, progettato per durare 100 anni.
Un monumento ricorda le migliaia di persone, militari, civili volontari, che subito dopo il disastro accorsero per cercare di limitare i danni.
I “liquidatori” sono le migliaia di persone che trascorsero mesi a ripulire la zona, radere al suolo i villaggi e seppellirli, lavare le strade, rimuovere lo strato superficiale del terreno, abbattere animali selvatici e domestici e addirittura tagliare e seppellire intere foreste contaminate.
Tutto era cosparso di polvere radioattiva e di pezzi di combustibile nucleare.
Ma per quanto si poteva pulire nulla poteva essere controllato realmente.
La nube raggiunse parti del mondo lontane, anche l’Australia.
In un primo momento il reattore venne raffreddato con l’acqua del vicino fiume. Il liquido entrava in contatto con il combustibile nucleare, diventando anch’esso radioattivo, reimmesso nel fiume, passava da Kiev, sfociava nel Mar Nero, finiva nel Mar Mediterraneo.
Nei giorni successivi l’incidente, con i villaggi ormai deserti, le case furono saccheggiate. Oggetti domestici, tappeti, indumenti, stoviglie. Si racconta che tutto finì nei mercatini di Kiev e dell’Europa intera. Cosi come i prodotti della terra che quella zona produceva. Il grano, le patate, i pomodori. Tutto fu rubato eludendo la sorveglianza, corrompendola, tutto svenduto. I maiali, i buoi, le pecore. Addirittura il legno della foresta servì per fare mobili e parquet.
Esistono pagine di libri dove si parla delle malformazioni e delle malattie legate alle conseguenze delle radiazioni rilasciate dall’incidente. Storie che fanno impallidire, al limite della fantascienza.
Si stima che le vittime nel mondo legate alle conseguenze del disastro di Chernobyl, siano oggi milioni.
A Chernobyl c’è un fantasma che ha fatto sentire il suo grido sinistro in tutto il pianeta.
A Chernobyl ci si trova sul luogo del più grande suicidio dell’umanità.
Mi sono trovato di fronte a un’uccisione di massa che non accenna ad arrestarsi, quella che l’umanità sta compiendo nei propri confronti in nome del progresso, inquinando e spargendo veleni.
Chernobyl mi ha mostrato il volto dell’umanità che ha distrutto la natura e ha eretto palazzi per poter vivere con comodità, ha costruito una centrale per produrre energia e permettere ad un ufficio di rimanere fresco anche d’estate e lasciare accesa una lampadina che non fa luce a nessuno.
Ci vorranno 800 anni perché questa zona torni naturalmente pulita da radiazioni.
Un tempo in cui l’umanità forse non esisterà più. Vittima del suicidio globale.
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Lory (giovedì, 18 aprile 2019 15:39)
Wow Matteo, come sempre straordinario, emozionante e da pelle d’oca. Complimenti!
Tiziana - lavaligiainviaggio (giovedì, 18 aprile 2019 23:56)
Un racconto emozionante. È impressionante ripercorrere la storia che ancora oggi ha delle gravi ripercussioni su tutto il mondo.