Due porte e dieci metri. Il pianto o la salvezza. Il prima e il dopo. L’affanno e il respiro. Il peso che porto sulle braccia e sull'anima. Muovo il primo passo.
Due porte e dieci metri.
Il caldo soffocante, i colori accesi, gli odori forti e una rosa. L' India ci ha accolti così. Un fiore donato al nostro arrivo in aeroporto a Madurai dalle mani di una bimba vestita in sari, il tradizionale vestito indiano.
Le mani giunte in segno di saluto, un tocco sul cuore.
Gli occhi sorpresi dei miei compagni di viaggio. Sono medici e infermieri al primo contatto con questa terra. Qui dove il traffico sembra bollire nelle strade, all’impazzata, ma con una logica precisa e a noi occidentali nascosta e incomprensibile.
E il rumore, voci, clacson, motori. Come il frastuono continuo di una pioggia grossa su un tetto di metallo.
E la gente, i piedi scalzi, la fronte disegnata, le mani giunte, i sorrisi mai finti.
"Su questo pulmino non ci sono Alfredo o Arianna, su questo pulmino c'è l'Italia" - è il dottor Sasha a parlare sul mezzo che ci porta in ospedale per il primo giorno di questa missione di cardiochirurgia, mentre l'autista scansa uomini e mucche - "Quello che noi facciamo qui rappresenta tutto il nostro popolo e la realtà da cui arriviamo."
Comincia questa avventura in terra indiana, benedetta da corone di fiori, fuoco e offerte alla statua di Ganesh, il dio dalla forma di elefante.
La fondazione “Little moppet heart”, è un’associazione che opera nella regione del Tamil, nel sud della nazione indiana. Realizza campagne di screening nelle scuole dei villaggi più remoti. Il direttore, il dottor Gopi, si sposta per la regione con un ecocardio portatile, raccoglie i casi medici visitando tutti i bambini e offre gratuitamente la cura alle famiglie povere.
In direzione di uno di questi villaggi comincia il mio vero viaggio, a casa di un piccolo paziente, sulla riva dell’oceano.
Gowtham ha 5 anni, durante una delle campagne di visite nelle scuole gli è stata diagnosticata una cardiopatia congenita grave.
Andremo a prenderlo per portarlo in città, dove riceverà un intervento correttivo e risolutivo al suo piccolo cuore malato.
L’aria è bollente e irrespirabile nonostante qui sia inverno. La lamiera della nostra Hyundai è arroventata dal sole di mezzogiorno.
Viaggio insieme a Karthik, uomo “tutto-fare” dell’associazione, baffetti da indiano, carnagione del colore della pece. Gli è stato chiesto di accompagnarmi in questo viaggio verso il mare e ritorno. Capisco a quale raccomandazioni lo avranno istruito perché assolve il suo compito con il sorriso e con una premura esagerata, dimostrando un’ospitalità e una gentilezza al di là di ogni aspettativa.
Oltre ad essere un fedele scudiero, al nostro ritorno in città imparerò ad apprezzarlo come un vero fratello.
Lasciata la città ci accoglie la campagna. Distese di campi di canna da zucchero, caffè e boschi di palme.
I villaggi si presentano come un ammasso di case costruite senza nessun piano, come se qualcuno avesse buttato dall’alto una manciata di mattoni, lamiere e cemento.
Duecento km di strade indiane, dove non esistono segnali stradali, dove la sicurezza è assente. Carretti, camion, motorini che trasportano intere famiglie, mucche, cani, buche e polvere.
“Mister Mato, qui niente posate, cibo indiano si mangia con le mani”, il primo pranzo con Karthik è il manifesto della cultura indiana. Una bottega scelta tra le centinaia che incontriamo per strada, il riso e il pollo consumato con le mani.
Mi sembra di essere entrato dentro le pagine di “Shantaram”, in un percorso che incredibilmente mi sta facendo sentire a casa.
I campi lasciano il posto alle paludi e di fronte a noi si apre la distesa azzurra dell’oceano.
Unita alla terraferma da un lungo ponte, l’isola di Rameswaram è un prolungamento sul mare della penisola indiana, un fazzoletto di terra sull’oceano indiano che guarda da vicino lo Sri Lanka.
A dispetto delle piccole dimensioni ha una densità di popolazione altissima. Ci accoglie il solito caos cittadino. Le abitazioni lasciano posto alle discariche della periferia, i laghi di liquami e infine la spiaggia.
Il villaggio è un ammasso di capanne costruite con foglie di palma e paglia. Ad aspettarci nel cortile di casa c’è l’intera famiglia. Incrocio lo sguardo di Gowthan, ci guarda curioso da dietro il vestito colorato della mamma.
In pochi minuti c’è l’intero villaggio a salutarci.
Stringo mani e ricevo sorrisi, preso dalla confusione mi lascio andare a pacche sulle spalle e abbracci. Vedo Karthik agitarsi, il suo sorriso è un misto di sorpresa, divertimento e rimprovero, con tutta la gentilezza possibile mi ammonisce, “Qui le donne non si possono toccare.” mi ricompongo mortificato mentre i vicini salutano e ci lasciano soli con la famiglia.
Gowtham vive senza il padre che ha abbandonato la casa poco dopo la sua nascita. La madre e i nonni si prendono cura di lui vivendo in condizioni di estrema povertà.
Una famiglia di pescatori che ha visto due figli scomparire tra le acque dell’oceano. Lo stesso mare che ogni giorno gli dona da vivere.
La sabbia della sera è comoda e fresca. La famiglia in cerchio ascolta le parole di Karthik che, spiega loro, quale operazione affronterà il piccolo.
A ridosso della recinzione giace un cumulo di reti da pesca, un insieme di contenitori pieni d’acqua si trovano in un angolo per le funzioni d’igiene giornaliere. L’interno della capanna è uno spazio angusto, sul fuoco bolle un pentolino, ad un filo sono appesi dei vestiti, i letti sono delle coperte sulla sabbia. Solo la luce di una piccola lampadina impolverata illumina da un angolo la capanna.
Io e Karthik sediamo su due sedie di plastica, il resto della famiglia ci osserva con le gambe incrociate per terra. Gli occhi del nonno luccicano come due spilli nel buio del cortile, le gambe scheletriche.
Accetto con piacere il pesce servitoci su una larga foglia verde. È piccante, ha il sapore del mare, del fuoco e di tutti i gusti di questa terra; un pasto servito in onore di noi ospiti.
Insisto più volte affinché mangino con noi, ma rifiutano sempre con garbo.
La luna si alza oltre il tetto della capanna. Salutiamo la famiglia dandoci appuntamento all’indomani mattina, per quello che sarà l’inizio del vero viaggio.
Il silenzio è totale. L’india vera comincia qui, dove si siede per terra, dove non ci sono luci.
La sveglia suona traditrice alle 5 del mattino, mi alzo con la sensazione di trovarmi ai confini del mondo. Sul mio cellulare i messaggi di Karthik, si premura di sapere se la notte sia passata bene.
Gowtham è ancora avvolto nella coperta, si stropiccia gli occhi, tira su il cappuccio della felpa e corre a lavarsi i denti nel contenitore fuori in cortile.
L’acqua per i bisogni giornalieri viene tirata su dai pozzi e raccolta in secchi e fusti, con il rischio altissimo di infiltrazioni di acqua marina o di liquami. L’acqua potabile è distribuita tutte le mattine dalle autobotti governative ad un prezzo altissimo.
L’alba è ancora una promessa dietro le palme.
L’oceano non ha bisogno di farsi vedere per far capire che lo stiamo raggiungendo. Lo si sente nell’aria ancora prima di averlo di fronte. Si percepisce la presenza oltre lo steccato del cortile. Lo si vede nel volo dei gabbiani che cercano il vento giusto tra le ali.
La strada verso la spiaggia passa fra le capanne, sento il respiro pesante di Gowtham nel silenzio della mattina, ha bisogno di fermarsi più volte per prendere fiato. Il suo cuoricino va in affanno.
Alcune donne stanno spazzando davanti alle loro porte per scacciare simbolicamente gli spiriti maligni che la notte hanno fatto visita alle loro case.
Il vento ci spinge in faccia aria tiepida. La schiuma del mare fa rotolare conchiglie e granchi. Il sole caldo si alza lentamente dalle acque.
In lontananza delle teste di uomini emergono dal mare. Tirano le reti con una tecnica per cui i pescatori restano immersi in acqua fino al collo. Per 10 ore al giorno. 150 rupie è la paga giornaliera se lavori alle dipendenze di qualcuno. 150 rupie. Quasi 2 euro al giorno. Per 10 ore.
Chi pesca per mantenere la famiglia non può permettersi di mangiarlo quel pesce. Tutto il pescato va venduto per vivere. Tutto. Ascolto incredulo le parole del nonno, e come una frecciata comprendo il loro comportamento la sera prima, il rifiuto a mangiare con noi la cena di pesce.
L’immensità del gesto che quella famiglia ha fatto per noi ospiti è commovente.
I capelli increspati dalla sabbia, i nastrini colorati, i piedi scalzi. A salutarci ci sono tutti gli amici di Gowtham. Me li ritrovo attaccati alle gambe e alle braccia mentre regalo loro colori e pelouche.
È tempo di andare. Con noi anche la mamma e la nonna, non parlano una parola d’inglese, ma non mancano di farsi capire con gli occhi e le mani.
La nostra macchina riprende la strada in direzione inversa a quella percorsa il giorno prima.
Le capanne, le discariche, la città, il ponte sull’oceano, la terraferma. Dal sedile posteriore Gowtham allunga la mano e cerca le mie dita. Le paludi, i campi di caffè, la città grande di Madurai.
La meraviglia negli occhi del bambino del villaggio che si ritrova in mezzo alle macchine e alla confusione.
Le strade, gli incroci, l’ospedale, le scale fatte con il fiatone, la stanza in reparto, il letto, la notte.
Durante la cena racconto ai ragazzi le emozioni del mio viaggio verso casa di Goutham e ritorno. Per due giorni non ho dato loro notizie, descrivo ogni attimo di quella esperienza, gli occhi della gente, le manine di Goutham che accarezzano le mie.
"Domani lo accompagni tu in sala operatoria" non so chi sia stato il primo a pronunciare questa frase, dico di no, non è responsabilità mia, non sono medico, insistono e quasi piango. Un gesto che mi ha lascia spiazzato, una richiesta oltre ogni valore.
Indosso la divisa medica che per la prima volta mi sono ritrovato a mettere nello zaino prima di una partenza per un viaggio. Il reparto dei ricoveri è separato dal blocco operatorio da un corridoio e due pareti. Due porte e dieci metri.
La mamma consegna a me il suo piccolo, dalle sue braccia alle mie. Non guardo i ragazzi negli occhi per non tradire l’emozione. Quel gesto che loro hanno compiuto centinaia di volte ha un significato che va oltre ogni spiegazione. Per me ha un peso enorme. Lo spazio fra il pianto e la salvezza. Il prima e il dopo. L’affanno e il respiro. Due porte e dieci metri. Il lettino della sala operatoria.
A volte esiste un modo giusto per spezzarsi il cuore.
Non troverò mai le parole per ringraziare chi mi ha permesso di vivere questa esperienza.
Grazie ai ragazzi italiani: Arianna, Claudia, Benny, Mauro, Mimma, Rosanna, Alfredo, Peppe. Non siete stati dei singoli, siete stati una vera squadra, sempre professionali, presenti e umani.
A Karthik, che mi ha condotto sulle assolate strade indiane con un attaccamento e una premura a tratti quasi indisponente, in un viaggio in cui ho capito che il posto giusto in questo mondo è dove ti senti bene con te e con chi ti sta accanto, anche se dopo tanti giorni insieme continua a chiamarti “Mato”, ma con davanti la parola “fratello”.
E grazie a Gopi e Sasha, i chirurghi che con le loro mani hanno dato un futuro al piccolo Gowtham e a decine di altri bambini, alcuni dei quali considerati quasi senza speranza.
Ma non poteva finire diversamente, non in mezzo a questa gente.
L’India è un paese difficile sotto molti aspetti.
L’India, ti colpisce gli occhi con la magnificenza dei suoi colori, ti prende allo stomaco con le sue ripugnanze.
Una terra che forse senza gentilezza e amore sarebbe impossibile da vivere.
L’india ti conquista perché la gente ha sentimenti veri, ed è una sensazione forte e innegabile. Questa gente si ama l’uno con l’altro e lo fa in maniera incondizionata anche con chi incontra per un breve tratto nel suo cammino.
Questa terra a noi ha dato tanta umanità, ha lasciato sorpresa e meraviglia. E una rosa.
Ho portato con me un petalo di quel fiore regalatoci il primo giorno in aeroporto. Era una rosa rossa. Ho portato con me un petalo che ha la forma di un cuore. Piccolo e rosso, proprio come lo disegnano i bambini.
Un cuore guarito come quello di Gowtham, che può finalmente correre in quella spiaggia che guarda l’oceano, inseguire i granchi senza doversi fermare per riprendere fiato.
Può correre avanti nel suo viaggio della vita, due porte e dieci metri più in là.
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Piero (sabato, 16 febbraio 2019 21:12)
Siete stati fantastici. Complimenti a tutti ed un grazie particolare a Claudia, sei piccola ma tanto grande dentro. Orgoglioso di te. Papà
Domenico Luciano (domenica, 17 febbraio 2019 15:53)
Grande Matteo.....
Tutto ciò ti fa onore....
I miei più sinceri complimenti
D.L.