ritratto di una città santa e crudele
Ricordo il fremito che mi prese quando l’autobus mi portava per la prima volta a Gerusalemme. La “potenza” di quel nome e della storia mi riempiva di ansiosa attesa.
Le imponenti e bianche mura di Solimano rendevano ciechi riflettendo un sole abbagliante.
Un formicaio di umanità, un’enciclopedia di volti, un campionario di colori, un pozzo di misticismo, un frullatore di razze e religioni.
Kippa, keffye, tuniche, croci. Copti, ebrei, mussulmani, etiopi, cristiani. Moderni santoni, frati cappuccini, donne con il fucile a tracolla. La strada dei tetti, la cupola d’oro, le botteghe, il suq, l’odore di spezie, i bambini, le grida, la puzza, i carretti, i soldati.
Da qualunque porta si entri in città, si viene risucchiati in un imbuto fatto di dedali di viuzze, strade coperte, angoli nascosti. Nelle giornate calde l’aria è immobile, il respiro diventa pesante, il vociare e il caldo diventano solidi, la folla è un fiume colorato.
È in quelle strade che israeliani e palestinesi sono costretti a camminare insieme, si sfiorano, si ignorano, e quando la tensione sale si trasforma in uno spintone, uno sputo, un insulto.
Gerusalemme è un campo di risiko, dove le bandiere vengono issate sui tetti per segnalare la “conquista” di una casa, di un terrazzo, di una scala.
Gli spazi sono ristretti, le case si incastrano come in un immenso tetris. Anche se dagli anni ‘60 la città è stata divisa in quartieri distinti, è impossibile venire a capo di una situazione demografica, politica e sociale complessa.
A Gerusalemme bisogna arrivare in punta di piedi, e capirne la fatica insegna a sentirsi cittadini del mondo.
Nella città “tre volte santa”, i tempi del giorno sono importanti come la sua storia, ne scandiscono l’esistenza.
Come quando una giornata volge al termine, il cielo azzurro viene percorso da striature rosa, sembra quasi un tramonto del sud, non fosse per il fatto che ad annunciare la sera è un canto, come uno schiaffo che ti costringe a fermarti ad ascoltarlo.
La voce degli imam vola sui tetti. La “saud”, il richiamo alla preghiera, si diffonde da un angolo all’altro della città, le luci verdi dei minareti si accendono. Le strade si calmano, e scende dentro le mura della città una lentezza surreale.
Ho salutato cosi Gerusalemme, guardandola da sopra un tetto. Un momento toccante, inspiegabile a parole, addirittura commovente.
Da quando a questa città fu concesso il tempo di esistere, la sera e il buio la avvolgono, lasciandola riposare dalla durezza e dalla follia che ne segnano le giornate. Ogni giorno che Dio, qualunque dio, manda in terra, ricomincerà presto fra bambini, soldati, sputi, tonache, insulti, croci, bandiere, fucili.
Il ritratto di una città santa e crudele.
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