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"Ogni pioggia è un incubo," racconta Vincenzo, residente di Piscità. "Non possiamo vivere con la paura che una semplice perturbazione ci sommerga di fango."
Stromboli, un gioiello delle isole Eolie, sta vivendo una crisi ambientale senza precedenti. Quello che una volta era un paradiso terrestre è diventato per i residenti un luogo di paura e incertezza, dove la pioggia, da sempre simbolo di rinascita, si è trasformata in un incubo. Le strade del borgo e i vicoli di Ginostra si trasformano sempre più spesso in torrenti di fango e detriti.
La protesta esplosa nei giorni scorsi ha portato alla luce una crisi che si trascina ormai da anni. Gli abitanti dell’isola, stanchi e impauriti, hanno chiesto a gran voce aiuto. Il grido d’allarme arriva da una popolazione che si sente abbandonata, schiacciata tra eventi naturali sempre più intensi e una gestione inadeguata del territorio.
Dall’incendio del 2022 al presente inferno
Due anni fa, un incendio devastante, originatosi durante le riprese di una fiction Rai dedicata alla Protezione Civile, ha segnato profondamente l’isola. I danni sono ancora visibili, e la vegetazione distrutta ha aumentato l’instabilità del territorio, con una grande frana verificatasi in quella zona appena due mesi dopo. Eppure, ciò che sembrava un episodio isolato si è trasformato in una crisi continua.
Oggi Stromboli è teatro di fenomeni sempre più frequenti e intensi. Le piogge si trasformano in eventi catastrofici. Dodici torrenti, dalla frazione di San Vincenzo a Ginostra, diventano fiumi in piena, trasportando fango, cenere e massi fino ai centri abitati.
Non è solo l’eredità dell’incendio a preoccupare. Gli ultimi parossismi del vulcano Stromboli, chiamato affettuosamente “Iddru” dagli isolani, hanno depositato enormi quantità di cenere che, a contatto con l’acqua, scivolano a valle con una forza distruttiva. I locali raccontano di muri e ponti trascinati via dalla furia dell’acqua e di notti insonni passate a monitorare i torrenti per prevenire il peggio.
Gli abitanti puntano il dito anche contro l’abbandono delle campagne. I terrazzamenti, un tempo curati e fondamentali per contenere il terreno, sono stati lasciati al degrado. Inoltre, la presenza di oltre 2000 capre selvatiche ha aggravato la situazione, animali che stanno distruggendo i muri a secco e aumentando l’instabilità del suolo.
La voce di chi vive ogni giorno sotto minaccia
“Ho deciso di andarmene dopo 42 anni,” racconta esasperato Andrea. “Non è più possibile vivere qui: ogni volta che piove è un rischio per la vita. Il letto del torrente che passa vicino casa mia si riempie continuamente di detriti. Abbiamo scavato, rimosso sabbia e massi, ma basta una pioggia di dieci minuti per far tornare tutto come prima.”
La frustrazione verso le istituzioni è palpabile. La Protezione Civile, accusata di essere assente nel momento del bisogno, viene ricordata per un’unica visita ad agosto: “Sono venuti solo a dirci cosa non potevamo fare. Ma quando il pericolo è reale, spariscono.” Gli abitanti si sentono abbandonati sia a livello regionale che nazionale, con interventi sporadici e inefficaci che non risolvono i problemi strutturali. “Abbiamo torrenti pieni di fango e canali ostruiti. Se non si interviene subito, l’isola crollerà poco a poco.”
La richiesta disperata di aiuto
Gli isolani chiedono interventi immediati e strutturali: la pulizia dei torrenti, la creazione di squadre dedicate alla manutenzione, e una gestione più attenta e continua del territorio. Le proposte sono concrete ma disperate. “Se non ci ascoltano, dovremo protestare a Roma, bloccare Montecitorio e farci sentire. Non possiamo più aspettare.”
Lo scroscio delle fontane copre quasi la voce, un cielo pesante e caldo d’umidità nonostante sia dicembre, Noor Alden ci precede di qualche passo, è sorridente, lo è stato per tutto il tempo del nostro tour tra le strade di Bagdad: “Questa piazza è vuota, ma è vuota perché è il simbolo di quello che c’era e adesso non c’è più. Questa piazza è vuota da 20 anni perché rappresenta il cambio di un’epoca, tra Saddam e adesso”.
La videocamera appoggiata sul sedile della macchina, nuova nella sua confezione, la mia prima videocamera. Sono passati quasi 15 anni da quando decisi di provare a fare il video maker, fino ad all’ora avevo semplicemente una bravura per fare i video, un diploma di geometra, una laurea in scienze statistiche, varie situazioni mi avevano portato ad essere in quel momento senza lavoro, decisi allora di seguire la mia passione: “Nonno faccio il video operatore”. Non avevo nessun contatto, dovevo cominciare da zero, non ero nessuno, era un salto nel vuoto, una scalata senza appigli. Mio nonno Matteo, con i suoi 90 anni, probabilmente non comprese nemmeno veramente quale fosse il mestiere che volevo fare, mi rispose con una domanda: “Tu lo sai qual è la montagna più alta?”
La città dei grattacieli si apre di fronte a noi, costruzioni del futuro circondate da distese di lamiere domestiche. I chicchi verdi di caffè stanno tostando sulla brace, una preparazione lenta, un vero e proprio rito per la popolazione locale, un caffè che ci risveglia dal lungo viaggio.
Una notte in aereo, Addis Abeba si è presentata a noi quando ancora era buio. Abbiamo organizzato tutto in pochi giorni, “Matteo, dobbiamo andare in Etiopia a vedere un ospedale e parlare con il Ministro” il messaggio del dottore Agati, al quale puoi semplicemente rispondere “Dimmi solo quando e ci sono”.
Ci ha accolti Demeke, cardiologo pediatrico fiero del suo mestiere. Lo scorso anno è stato sei mesi in Italia, ha studiato al reparto di cardiochirurgia pediatrica di Taormina, dove il dottore Sasha Agati, primario del centro, è stato il suo maestro. Si è perfezionato prima di tornare a casa e cercare di salvare i bambini cardiopatici nel suo paese. Ma da soli la chirurgia non si fa; quindi la richiesta di una visita al Ministro della salute, la possibile speranza di portare in Africa l’equipe italiana per operare i piccoli.
È il giorno della ricorrenza della Santissima Trinità, le strade sono piene di fedeli copti, le teste coperte da veli bianchi, le candele, l’incenso. La folla. Mi segno con una croce frettolosa mentre attraverso l’ingresso della cattedrale, camminando, senza fermarmi, è Demeke a farmi notare l’accaduto senza che io me ne sia reso conto, un rimprovero gentile. Osservo il resto dei fedeli fermarsi dritti sulla soglia d’ingresso, farsi la croce, procedere.
In Europa la gente in strada ha uno scopo, va in una direzione precisa, ha un ritmo spesso scandito dalla fretta. Nelle grandi città africane in pochi seguono questo comportamento. Il tempo viene restituito alla sua funzione. In tanti non hanno dove andare, si spostano seguendo l’ombra, aspettano il passare delle ore.
Un ragazzo passa con un carico di erbe sulla testa, sono ceci, li mangiamo verdi, sbucciando un baccello alla volta, come vuole la tradizione in questo periodo.
Il muro. Le reti di metallo, le divise dei militari, le torrette di controllo, i fari, i chek point, i mitra pronti ad entrare in azione. I 12 metri di cemento del muro di separazione. Tutto ti racconta che da quel punto in poi sei in una zona di guerra. Inizia così il documentario del video maker messinese Matteo Arrigo, un viaggio in Palestina tra i volti, la quotidianità, la sofferenza.
(articolo su Gazzetta del sud del 08/12/2016)
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